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Invasori: Revival #5

 

 

We are the roots of your country… III

 

 

Ci furono alcuni istanti di silenzio. Pochi secondi di quiete che contrastavano tragicamente con il fragore di poco prima. Joseph Ridd sapeva cosa stava accadendo e anche Bucky. I vietminh avevano organizzato un’ottima trappola, scegliendo un luogo in cui per gli americani, una volta entrati, sarebbe stato difficile uscire.

Avevano spezzato l’unità ed ora, dopo averla decimata, si stavano riorganizzando, pronti ad accerchiarla.

Gli elicotteri del 5° aviotrasportati era l’unica speranza di riuscire a venirne fuori ma tra loro e ed essi c’era troppa giungla.

In linea d’aria la distanza non era molta ma lì, ogni cm doveva essere conquistato con sangue e sudore, a rischio della propria vita.

“Hanno avuto una bella pensata.” Disse in un sussurro Bucky.

Il tono divertito infastidì non poco l’altro che però decise di tenerlo per sé e rispose:

“L’unica mossa che potesse garantirci una possibilità. Meglio di niente ma dobbiamo muoverci con cautela. Tra poco ci saranno di nuovo addosso e stavolta non ci daranno tregua.”

I due si fissarono attraverso le tenebre. Leonard stava vicino al tenente che gli faceva da scudo con il proprio corpo. Uno scudo che avrebbe dovuto proteggerlo dall’ex compagno di squadra. Ridd e Bucky erano in stallo. Nessuno dei due poteva fare niente. Dovevano collaborare per venire fuori da quella situazione ma entrambi sapevano che presto avrebbero fatto i conti.

Il caldo era soffocante l’aria era carica di fumo e del lezzo della morte. I moschini e le zanzare si affollavano intorno ai due, risparmiando invece Gremlin che gli doveva essere poco gradito.

Si stavano logorando, giunti quasi al limite della sopportazione, ma dovevano resistere se ne volevano venir fuori vivi.

 

Leonard fissò per un attimo il cielo e cercò di scrutare qualcosa al di là dell’apparentemente impenetrabile cortina che sembrava volesse negargli definitivamente il resto del mondo.

Del Paradiso aveva parlato poco prima il Camaleonte ma lui si trovava all’Inferno, perché di certo quello era il posto in cui si trovava. L’Inferno fatto di urla, di rabbia, di odio, di frustrazione, di sconfitta e morte. Nessuna vita eterna. Nessuna resurrezione. Nessun ristoro, né perdono alcuno. Nessuna pena alleviata. C’era solo l’inappellabile condanna al genere umano: la condanna a soccombere alla propria natura. Passò una mano sul volto, tentando di vincere il torpore che l’aveva colpito.

Era terribilmente stanco e provato. Non solo nel fisico ma soprattutto nella mente e nello spirito.

 

 

A pochi chilometri dal teatro della battaglia – Ore 2.38

 

 

Si sentiva male. La testa gli pulsava sempre più velocemente ed era come se fosse stata piena di un gas dal  sapore stomachevolmente dolciastro. Questo lo mise in allarme più di ogni altra cosa perché quando era nella sua forma fiammeggiante non sentiva nessun sapore. Si chiese se fosse reale o solo un qualche bizzarro fenomeno psicosomatico dovuto allo stress. Improbabile. Sapeva quando il suo corpo lo ingannava e quando faceva sul serio. Non si era risparmiato poco prima, con gli uomini del convoglio e stava volando già da un po’ al limite della sua velocità massima. Le condizioni ambientali poi non erano delle migliori e ormai non era più un ragazzino. Si stava stancando e questo non andava bene, perché se i suoi poteri gli fossero venuti meno, sarebbero stati guai seri. Atterrò appena vide un piccolo tratto paludoso. Doveva essere stata una risaia. Forse l’avevano abbandonata perché era divenuto pericoloso lavorare la terra lì. Gli scontri che dovevano svolgersi frequentemente arrivavano a mietere molte vittime anche tra chi non vi partecipava. Si abbassò alcune decine di metri, dette un’ultima vampata per spingersi di lato e spense bruscamente il suo corpo.

Non fu un atterraggio piacevole, anche se da anni ormai era pratico di quel tipo di manovra e riusciva a non rompersi niente. In questo modo un eventuale osservatore avrebbe impiegato più tempo a capire dove era esattamente atterrato e in questo caso l’eventuale osservatore era Capitan America.

Era dietro di lui, lo sapeva. Non poteva illudersi di sfuggire ad un mastino del genere. Addestrato, freddo, instancabile. Si tirò fuori a fatica da quel pantano e imboccò quello che appariva come un piccolo sentiero che si inoltrava tra la boscaglia. L’aveva adocchiato dall’alto, decidendo immediatamente che se il ragazzo era fuggito, lo aveva fatto per di lì. Era un azzardo il suo ma sapeva che non poteva essere tornato indietro, verso il villaggio, altrimenti lo avrebbero trovato. Era fuggito, probabilmente in preda ad un attacco di panico. L’unica cosa a cui doveva esser riuscito a pensare era stata di allontanarsi il più possibile dai suoi compagni di squadra.

“Istinto di conservazione!” Grugnì tra sé e sé. Ogni passo era un’agonia, ogni metro percorso una sfida vinta contro i propri limiti. Stava cominciando ad arrancare ma non poteva, non voleva e non doveva fermarsi. Cap era alle sue spalle e guadagnava terreno ad ogni secondo che passava. Aveva a che fare con una vera e propria macchina da guerra su due gambe, una macchina che gli stava dando, implacabile, la caccia. Era sceso giù per risparmiarsi, per conservare la forza sufficiente ad usare la sua fiamma se avesse dovuto scontrarsi con lui, sapendo bene che in un corpo a corpo non sarebbe mai sopravvissuto. Poteva solo sperare di riuscire ad incenerirlo prima che potesse tentare qualsiasi cosa. Prima avrebbe dovuto ucciderlo ed invece non era stato sufficientemente veloce. Imprecò a denti stretti. Un’occasione come quella lì non si sarebbe ripresentata, non con uno del calibro del suo ex capitano.

I suoi occhi ebbero un guizzo quando vide ciò che sperava: delle tracce;

i suoi calcoli erano giusti. Anche il ragazzo aveva seguito quel sentiero, se pur per poco visto che ad un certo punto ne uscivano e seguirle divenne più difficile.

Sentì il rumore degli spari e delle esplosioni e capì con grande frustrazione che doveva essersi andato a cacciare proprio lì. Temeva seriamente per la sua vita. Sia che lo trovassero i charlie, sia che lo trovassero i loro, era comunque in pericolo. Avrebbe anche potuto essere abbattuto durante lo scontro.

“Non morire. Per Dio, non morire, te ne prego.”

Non voleva che accadesse. Non voleva che gli succedesse ancora. Perdere qualcuno a cui era legato senza poter far nulla, senza poter dire la sua.

I suoi genitori, il suo mentore e amico. Glieli avevano portati via in un istante, senza concedergli nemmeno il diritto alla replica. “NO!” si lasciò scappare, saturo di amara rabbia.

Non riusciva ad andare più veloce. Non poteva, non procedendo in quel modo. I piedi gli dolevano con crescente, insopportabile intensità. I suoi stivali erano comodi per l’utilizzo dei propri poteri ma del tutto inadatti a percorrere un terreno così accidentato.

Ostinatamente continuò, preoccupato solo della vita di Leonard. La sua non contava più niente ormai. L’aveva persa tempo addietro e non c’era nulla che gliela avrebbe restituito, né tanto meno avrebbe mai trovato quella redenzione che cercava per la sua anima.

Altre tracce, meno evidenti ma che il sguardo allenato riuscì a cogliere. Sentì un brivido lungo la schiena: Bucky! L’ampiezza dell’orma e la suola non lasciavano dubbi. Quel bastardo doveva essersi messo sulle tracce di Leo. Se lo avesse trovato per primo… respinse con decisione l’idea e procedette in avanti.

 

 

“Molto bravo.” Non riuscì a non pensarlo senza un moto d’orgoglio che contrastava terribilmente con i suoi propositi. Thomas poteva anche essere un traditore dell’Esercito, della Patria e di Dio ma, mutante o meno, era anche un combattente preparato ed astuto. Si, doveva dargliene atto, era un vero veterano. Abile, ma non abbastanza per lui. La manovra di disimpegno era stata perfetta ma lui non era come gli altri e capire quale era il più probabile punto d’atterraggio non gli era difficile.

Si muoveva tra alberi, arbusti e bassi cespugli con agilità sovrumana. Nonostante il peso che portava e il tempo da cui era impegnato in quella corsa era appena sudato. Anni di droghe e steroidi avevano fatto il loro effetto, si disse compiaciuto. Raymond invece non poteva dire lo stesso. Se era sceso da una posizione visibile ma sostanzialmente sicura era solo perché doveva essere stanco. Il piano era di raggiungerlo prima che avesse il tempo di riposarsi a sufficienza e ucciderlo immediatamente, anche se farlo soffrire per fargli scontare i propri peccati sarebbe stato sicuramente più appropriato.

Non sempre però si poteva ottenere tutto quello che si voleva, pensò con un certo rammarico mentre scrutava tra le tenebre, evitando accuratamente tutti gli ostacoli.

Lui avrebbe voluto una squadra perfetta ed invece era stato messo al comando di quell’aborto, quello scarto di un programma sempre più agonizzante che probabilmente, nel giro di poco tempo, sarebbe stato persino soppresso dal Governo. I paraumani costavano, e non erano ancora un mezzo così efficiente e sicuro da poter rimpiazzare le armi convenzionali. Forse, con il progredire di scienze come la genetica e la cibernetica, sarebbero un giorno stati più a buon mercato e soprattutto, non dovendosi più affidare al caso che sembrava sbizzarrirsi a distribuire potere a più improbabili elementi, si sarebbero potuti selezionare uomini addestrati e fedeli. O forse si sarebbe potuto produrre direttamente un simile, ideale soldato. Lui era questo: il prototipo del super uomo del terzo millennio; Capitan America I  Steve Rogers, non lo era. Era si, un esemplare funzionante sottoposto al siero F.L.A.G. ma era tutto fuorché il modello a cui ispirarsi per ottenere un esercito di super soldati. Troppo indipendente. Troppo moralista. Troppo umano.

Tutte cose lui, ne era consapevole, non era. Aveva smesso di esserle tutte quante da molto tempo, da prima ancora di essere reclutato per il progetto Freedom Sentinel del Battaglione V.

La sua mente dilatò il tempo e scivolò, come non facevo da tempo, nella spirale dei ricordi.

 

Ospedale militare di S. Michael, sezione psichiatrica – Dicembre 1955

 

Era fortunato. C’era tanta gente che il giorno del Santo Natale era sola. Incredibile il solo pensarlo. Come si poteva vivere una simile, pietosa condizione? Eppure, si disse, era così e forse, non tutti potevano dare la colpa al caso. Chissà quanti erano quelli che la solitudine se l’erano guadagnata con anni ed anni di comportamenti sbagliati, ignorando le persone che gli stavano intorno, chiudendo il proprio cuore al mondo esterno. Non ci si sarebbe mai dovuti chiudere in modo così ermetico, totale, distaccato perché poi, alla fine, aprirsi nuovamente sarebbe stato difficilissimo e forse, una volta riuscitici, ci si sarebbe ritrovati completamente da soli.

Lui era fortunato invece perché non era solo. Aveva fatto del tutto per non esserlo e si era sempre preso cura di tutti i suoi cari, con affetto e dedizione, così che nessuno lo aveva abbandonato.

C’erano poi tutti i suoi amati commilitoni, gli amici con cui da tanto tempo ormai condivideva tutto. Ogni pena, ogni paura, ma anche tutta la gioia dell’esser vivi. Avevano combattuto, mangiato e pregato insieme. Cos’altro potrebbe legare tra loro tanti uomini provenienti da posti diversi con così tanta intensità? Sorrise nella penombra. Eccolo lì, pronto a festeggiare il Natale con tutti quanti, amici, parenti, la sua famiglia insomma. Ed ecco la sua Stella. Era bellissima nell’abito rosa e bianco del ballo di fine anno alla Coleman High. Aveva ancora l’orchidea che gli aveva regalato e che le aveva aiutato a mettere sotto lo sguardo benevolo dei genitori di lei.

“Signori Tuckerman, potete star tranquilli. Riporterò la vostra principessa a casa sana e salva.”

Sorrise. Eccolì che stanno ballando un bel lento, stretti l’uno all’altra. I loro corpi premuti con dolce forza mentre qualche lacrima le cola sulle guance, rovinandole un po’ il trucco.

“Shhh bambina mia. Andrà tutto bene.” Glielo promette ancora, ancora e ancora.

Erano giovani. Erano innamorati e il mondo pareva così luminoso, tutto carico di promesse per loro e la loro felicità. Il mondo era ancora così e quindi nulla poteva andare male. Nulla era andato mai male.

“Hai visto? Hai visto che sono tornato e che va tutto bene?” Lei gli sorrise ancora una volta. Gli occhi leggermente arrossati, le labbra tremolanti. Era come un esile fiore agitato dal vento del sud.

Le prese il mento tra due dita e lo portò la bocca di lei vicino alla sua.

Sorrise. Non era solo. Non lo sarebbe mai stato. Mai più. Tutti gli uomini del suo plotone applaudivano. I suoi genitori applaudivano. I genitori di lei applaudivano. Il Presidente Truman e il Sgt. Alloy applaudivano. Anche gli uomini del villaggio Hung applaudivano. Uno scrosciare di applausi che riempiva la grande sala da ballo mentre il sangue gocciolava con ossessiva, ritmica precisione a terra. Sorrisi affabili su volti dalle guance strappate, pacche su spalle forate o bruciate.

Andava tutto bene. Come sarebbe potuto andare meglio di così? Erano tutti lì, con lui, per sempre.

 

“Da quanto tempo è così?”

“Da una settimana dopo che ce l’hanno portato.”

“Perché lo tenete lì? Sembra tranquillo ora.”

“Ha detto bene: sembra; se avesse visto cosa ha fatto a quei due infermieri e ai pazienti a cui è riuscito ad arrivare… senza contare le povere Janet e Missy. Delle due la prima se l’è cavata con un occhio nero, un incisivo saltato e qualche costola incrinata. Missy è stata molto meno fortunata. Poverina. Aveva vent’anni appena compiuti e doveva sposarsi a Maggio. Ha tentato di tagliarsi le vene per la vergogna quando è uscita dal coma. Per fortuna gli uomini della sicurezza sono riusciti a buttare giù la porta prima che potesse dedicarsi anche a Janet e sono riusciti ad immobilizzarlo. Non prima che volasse qualche altro dente. Una bestia. Ecco che cosa era, una bestia inferocita.”

“Eppure quando è arrivato era calmo. Lei stesso nel rapporto ha scritto che si era sottoposto a tutti gli esami e risposto a tutte le domande senza mai protestare.”

“Avevo anche indicato che il suo comportamento era allarmante. Nessuno che abbia vissuto un’esperienza come la sua può essere così tranquillo ed indifferente. Era ovvio si trattasse solo di una maschera, una fase in cui si trovava per rifuggire dalla propria coscienza.”

“Lei crede? Cosa ne pensa della sua attuale condizione. Ne uscirà?”

Il medico osservò da dietro il reticolo metallico il paziente che se ne stava, come sempre, immobile, con la schiena puntata contro il muro. Ogni uomo era un mondo a sé stante e la geografia di quel mondo risentiva fortemente delle interazioni con ciò che lo circondava e con gli altri. Si chiese quanto profondamente ne avesse sconvolto la fisionomia qualcosa di tanto drammatico e crudele come quello che aveva vissuto lui. La sua rabbia e quella sorta di ebete stato catatonico in cui si trovava ora erano solo passaggi di una mente che stava affondando inesorabilmente in un abisso senza fondo.

“Sono convinto che ne uscirà, presto o tardi. È sempre stato un individuo pragmatico ed è solo questione di tempo: si renderà conto che quanto vede intorno a sé è solo una proiezione dei propri desideri; guardi il suo sorriso. Un sorriso demente, appaiato ad uno sguardo vacuo e allucinato. I ricordi lo hanno ubriacato al punto da sedarlo meglio della roba che gli diamo noi. Non è la realtà quella che sta osservando, non quella oggettiva ma bensì quella che vorrebbe fosse la realtà. Sta guardando al passato, prima di quanto accadesse. Sta osservando una riedizione della sua vita, come dovrebbe a suo giudizio essere.”

“Detto così sembra qualcosa di confortante. Osservò il militare mentre continuava a studiare quei lineamenti così delicati da far quasi dubitare della virilità dell’uomo che aveva sotto lo sguardo. In altre circostanze, incontrandolo magari in un bar, avrebbe pensato ad un adolescente che stava sviluppando in ritardo o a qualche checca in cerca di compagnia. Sapeva che di fronte non aveva né l’una, né l’altra cosa ma un coraggioso soldato dell’esercito U.S.A. che stava combattendo con una malattia invisibile e devastante. Un soldato che doveva assolutamente recuperare. Quasi, quasi verrebbe anche a me la voglia di trovare un simile riparo dagli affanni delle vita quotidiana.”

“Nessun rifugio può durare per sempre. Specie quando pretende di tenerci al riparo da noi stessi. L’errore è stato compiuto a monte. Quando lo hanno trovato in Corea, non avrebbero dovuto rispedirlo a casa dopo avergli fatto fare un colloquio frettoloso con un maldestro psicologo che aveva fretta di tornarsene a casa. Diamine! Quello è stato un dannato irresponsabile! Avrebbe dovuto capire subito cosa gli stava accadendo dentro! Invece tutti erano ansiosi di concludere quella brutta vicenda, dandogli il minor peso possibile. Tutti volevano dimenticare ma non avevano pensato che quel povero diavolo lì, non poteva certo dimenticare. Quando è tornato a casa ha cominciato a dare i primi segni di squilibrio e quando ha scoperto che la sua ragazza se la faceva con suo padre… dopo aver letto le sue cartelle cliniche e come era stato calmo, persino remissivo durante l’arresto, ho subito capito che era un soggetto veramente pericoloso. Vi avevo anche inoltrato un rapporto, che però voi avete puntualmente ignorato.” C’era un severo e risentito rimprovero in quella voce baritonale che l’altro accolse con una certa imbarazzata costernazione.

“Come ha osservato lei, l’esercito e noi anche volevamo che la storia avesse la minor risonanza possibile ed eravamo così presi dalla cosa che non abbiamo dato il giusto peso alle sue richieste e ad i suoi avvertimenti. Me ne dolgo.” Si giustificò con imbarazzo.

“Comunque si, ne uscirà e quando questo accadrà poveri noi. Solitamente in questi soggetti, la libido narcisistica si allenta, rivolgendosi a compensare il senso di colpa. Colpa e libido si annullano ed il soggetto perde la cognizione morale del bene e del male, ritrovandosi a vivere una lucida follia nichilista. Se solo non lo avessero rispedito a casa ma lo avessero mandato subito qui.”

“Forse la decisione è stata presa anche per una questione umanitaria. Dopo quello che ha dovuto passare sembrava quasi voler aggiungere una crudele beffa al danno subito mandandolo in un manicomio.”

“Questo non è un manicomio ma una struttura moderna e all’avanguardia per tentare di riabilitare soldati che hanno subito gravi shock, in modo da reinserirli produttivamente nella società. Qui non ci limitiamo a rinchiuderli dentro una stanza e a scordarcene, ma tentiamo in tutti i modi di restituire loro la dignità che gli spetta sottraendoli alla follia. Purtroppo con lui abbiamo fallito miseramente. Non risponde a nessuna terapia, e a nessuno stimolo. Il processo innescato sembra irreversibile.”

L’ufficiale ascoltò quelle parole con un certo nervosismo. Lo psichiatra non poté far a meno di notare il leggero tremolio delle mani incrociate dietro la schiena e capì che in quel momento dentro doveva star vivendo un conflitto tra i suoi doveri e quello che reputava realmente giusto.

Non disse nulla, attese che fosse lui a parlargli per primo e alla fine, questi disse:

“Il suo parere, dottore, lei lo sa, lo tengo in grandissima considerazione ma qui ci troviamo di fronte ad un dilemma molto serio. Lei è uno dei pochi uomini a conoscenza del Progetto Prometeo e dei suoi scopi. Con la Seconda Guerra Mondiale sono venute due cose: la bomba atomica ed i para umani;

sappiamo che il numero delle une e degli altri è destinato ad aumentare. Stiamo parlando di un futuro dove lo spettro di una guerra atomica potrebbe divenire realtà, cancellando dalla faccia della terra tutta l’umanità, oppure dove i para umani saranno tanti, e molto probabilmente utilizzati come vere e proprie armi viventi. Il vantaggio di questa ultima soluzione è che con loro possiamo avere un controllo maggiore su eventuali bersagli da distruggere, ed effettuare operazioni di tipo chirurgico, che con le bombe a non potremmo ottenere. Truman, quel gran bastardo, voleva atomizzare la Cina! Se lo avesse fatto, ci saremmo trovati sulle teste i missili dei sovietici e allora si, che avremmo potuto dire addio al mondo. È per questo che siamo andati in corea anziché nuclearizzare Pechino. Siamo riusciti a convincere il Presidente che quella non era un un’opzione fruttuosa e ci ha dato una mano la promessa di riuscire, entro dieci anni, a poter contare su un esercito di super uomini capaci di imprese straordinarie. Promessa da marinaio. Tutti gli studi fatti nel settore delle bio-armi non si sono rivelate assolutamente fruttuose. Abbiamo un buon numero di esemplari unici che però non riusciamo a riprodurre su larga scala e che con il passare del tempo si rivelano soggetti a gravi problemi di salute.

I mutanti. Sappiamo quasi con certezza che la popolazione così detta mutante aumenterà del 150 per cento nel corso dei prossimi 30 anni circa. Ma i mutanti sono altrettanto instabili e fino a questo momento non siamo riusciti ad indurre una mutazione favorevole nei soggetti degli esperimenti effettuati. Siamo solo riusciti a far nascere povere creature disgraziate afflitte da malformazioni così orribili che mi perseguitano negli incubi. Il Progetto Prometeo invece sembrerebbe in grado di poter realizzare il combattente americano per la massiccia produzione in serie che andiamo cercando. Però hanno bisogno di un test-type sul quale lavorare e mettere in pratica le loro teorie e lui, clinicamente parlando, è il candidato ideale. Ce ne sono altri 80, ma lei sa come vanno queste cose: se si può averne 81 è meglio; il suo fisico è perfetto ma il problema è la mente.”

Il dottore lanciò uno sguardo carico di comprensione all’uomo. Capiva perfettamente il suo dramma interiore ma purtroppo non poteva aiutarlo in alcun modo.

“Lei, se ho capito bene, sta chiedendo, più che un parere medico, il mio benestare.”

“Forse, se riuscissimo davvero a produrre su larga scala individui dotati di capacità straordinarie, potremmo effettuare un’invasione lampo della Russia ed impedirgli di lanciare le loro atomiche su di noi. Allora, una volta neutralizzati, potremmo smettere questa assurda corsa agli armamenti. Ha idea di quante ne stanno costruendo? E ormai è certo che tra qualche anno, saranno in grado di costruire un esemplare molto più potente di Hiroshima e Nagasaki. Questo non deve accadere! Sono un militare, e tutto ciò che so fare è la guerra, questo è vero. Qui però non si parla di una guerra come le altre. L’obbiettivo è cercare di vincere ma con un conflitto di quel tipo non si può vincere, indipendentemente dal risultato. Ho bisogno di quel super soldato. L’America ne ha bisogno. Ha bisogno di un’alternativa a quel diabolico fungo di fuoco che distrugge indiscriminatamente ogni cosa.”

La sua voce tradiva la disperazione di chi sente di avere un dovere inderogabile nei confronti dell’umanità intera. Il medico provava simpatia e rispetto per quell’uomo ma non poté dargli la risposta che cercava:

“Mi ascolti bene: capisco ed ammiro il suo punto di vista ma purtroppo questo soggetto non è adatto; so che lei non ascolterà questo mio parere e che lo porterà comunque via per sottoporlo ai vostri esperimenti. Ricordi però quello che le dico: voi non ne farete un super soldato ma un super assassino folle; lei vuole dare dei super poteri a qualcuno che è rimasto intrappolato tra le montagne per due mesi, che ha visto morire i suoi compagni in modo orribile uno dopo l’altro, che con i pochi sopravvissuti si è vendicato sterminando un intero villaggio e che ha passato il tempo di lì al suo recupero dedicandosi allo stupro e al cannibalismo; lei ha visto le foto? Ha visto quella foto scattata dallo scout? Lo ha visto mentre strappava le carni arrostite di un bambino di due anni?

Lei ha uno scopo nobile, e sono sicuro della sua buona fede ma che Dio l’aiuti. Lei ha scordato che anche i fisici che hanno lavorato a qualcosa di tanto terribile come quella bomba atomica che tanto l’atterrisce erano convinti di farlo per il bene dell’umanità. La strada per l’inferno è lastricata dalle migliori intenzioni. Un vecchio detto ma molto veritiero. Come medico, questo è il mio parere, come uomo, anche se so che non mi ascolterà, la prego di pensarci bene e lasciarlo qui, dove dovrebbe stare.”

Il Generale fissò il suo sguardo su quel mostro la cui anima era stata spazzata via dalla guerra. Lo fissò con intensità bruciante, drammatica, sperando nel miracolo di una completa guarigione ma sapeva benissimo trattarsi di una speranza del tutto vana. Non si tornava indietro da qualcosa di così definitivo e terribile.

Il dottore aveva ragione: avrebbe ignorato il suo parere, anche se dentro se ne sarebbe sempre pentito;

“Dio mio, aiutami e guida le mie azioni e se dovessero essere sbagliate, perdona gli errori di questo peccatore.”

La preghiera fu pronunciata nel silenzio della sua testa e la decisione venne presa.

 

Teatro della Battaglia – Ore 2.45

 

 

L’Iroquois P51 dondolava leggermente, poco distante da una pozza stagnante che gli abitanti del luogo chiamavano lago. L’unico luogo nei pressi dello scontro a fuoco dove si era potuto abbassare con relativa sicurezza senza incorrere nel pericolo di fuoco nemico. Ora rimaneva il problema del fuoco amico. Si sarebbero potuti trovare sulla traiettoria dei proiettili dei loro o abbatterne per sbaglio. Sal lanciò un’occhiata preoccupata al silente Doug che se ne stava in paziente attesa e ad Al, che invece continuava a sbraitare. “Per Dio! Mi fa impazzire l’idea che i nostri stanno morendo qualche centinaio di metri più avanti e non possiamo fare niente!” Esclamò alla fine con veemenza.

“Capisco cosa provi, ma dobbiamo mantenerci calmi altrimenti non gli saremo di nessuna utilità.” Controbatté il pilota italo americano. Anche gli equipaggi degli altri elicotteri erano piuttosto nervosi. L’ordine era di mantenere la posizione ma non avrebbero potuto farlo per più di altri venti minuti altrimenti non sarebbe bastato il carburante per tornare alla base. Toccò con gesto quasi furtivo la croce che portava sotto la camicia lisa e sudata. Un pezzo di legno dorato ereditato da sua nonna, una devota di Gesù e della Beata Vergine. “Padre nostro che sei nei cieli, non voglio disturbarti troppo. So che non mi faccio sentire quasi mai e che salto ad ogni occasione la Santa Messa. So di essere un peccatore e che per tutte le volte che sono andato con una prostituta, o andato a letto con una donna diversa da mia moglie, brucerò all’inferno. Ho mentito, sono stato un codardo e ho bestemmiato ed imprecato. Ho una lunga lista di peccati ma ti chiedo ugualmente di ascoltarmi. Quelli laggiù sono i nostri ragazzi ed ora sono intrappolati nella morsa del nemico. Molti di loro non l’hanno mai fatto, insomma si, mi capisci vero? Stanno combattendo per la loro patria. Alcuni sono qui per forza, molti altri perché ci credono. Sia come sia, aiutali ti prego. Falli tornare a casa…”

“Amen.” Concluse Alfred e solo allora si rese conto di aver pregato ad alta voce. Continuava a guardare verso la boscaglia, dove in quel momento si lottava disperatamente per la vita.

 

Ridd sparò un istante prima che il vietmin  aprisse a sua volta il fuoco su di lui. Non se ne era quasi accorto. Un quasi che poteva essergli fatale che poteva porre fine alla sua esistenza e a quella del ragazzo che era con lui. Quest’ultimo aveva un aspetto a dir poco strano. Eppure in quel momento non gli importava nulla di chi o cosa fosse. Sentiva solo di avere il dovere di salvarlo. L’altro se ne era accorto. Aveva visto il soldato nemico ma non aveva detto nulla. Ormai erano arrivati al momento della verità: si era messo contro quello psicopatico e se voleva sopravvivere doveva giocare sporco anche lui; decise in un istante che alla prima occasione l’avrebbe ucciso. Senza esitazione alcuna.

 

Bucky fissò apertamente con odio il giovane Ridd. Era uno sporco traditore anche lui. Tutti quelli in combutta con i mutanti lo erano, non c’era dubbio alcuno. Provò disprezzo per la degradazione morale in cui stavano scivolando le gloriose forse armate del suo paese e gli Stati Uniti stessi. I negri erano dappertutto ormai e presto sarebbero divenuti potenti anche a livello politico. Erano nell’esercito e questo era una follia. Non si poteva armare chi provava odio e disprezzo nei confronti di chi riteneva essere l’ex padrone. Non importava che lo schiavismo fosse finito da tempo. Non importava che si fosse tentato di trattarli in modo paritario. Negli stati del sud questo l’avevano capito da tempo. L’unico risultato che si otteneva allentando il controllo su di loro era che presto o tardi si rivoltavano contro i bianchi. C’era troppa rabbia in quegli occhi scuri, troppa diffidenza, amarezza e questo Kennedy non l’aveva mai capito, pensò. Certo, sentendo parlare un Luther King si era tentati di sperare. Come si poteva rimanere indifferenti innanzi alle parole di quello che era, se pur negro, un uomo di Dio? Lui stesso si era spesso sentito toccare da quelle parole, anche se si era salvaguardato bene dal dirlo pubblicamente. Sarebbe stato frainteso. Non l’avrebbero capito e l’avrebbero additato. No, non valeva la pena, specie perché sapeva che quelle parole, quelle stupende parole erano solo parole. I negri vivevano solo con i negri e predavano i propri simili. I loro modi di vivere erano diversi e per quanto ci si sforzasse di far finta, di vedere soltanto i pochissimi elementi apparentemente integrati, per quanto si volesse dimenticare quello che era successo in passato, il marcio continuava ad accumularsi infiltrandosi a tutti i livelli nella società americana. Gli uomini potevano essere anche tutti uguali agli occhi di Dio ma non agli occhi dei propri simili e nel mondo si viveva e con la realtà si doveva fare i conti. Carezzò la Smith e Wesson che portava al fianco e stavolta fu con uno sguardo di commiserazione che fissò Ridd e Klencher. Un povero illuso ed un’aberrazione genetica destinata ad essere odiata per tutta la vita dal resto dell’umanità. Non c’era nulla da fare: ucciderli era la cosa più giusta, pietosa, cristiana.

 

Lo scudo sibilò a pochi centimetri dal suo orecchio. Non gli aveva staccato la testa perché avanzando era scivolato a causa della mota che ricopriva ovunque il terreno sbilanciandosi in avanti. Capitan America balzò fuori dagli alberi come un puma e già intercettava l’arma che, colpito un albero, tornava verso di lui. Tom si gettò, rotolandosi in terra per evitare un paio di colpi di pistola esplosi da quello e, rapido, mantenendo il profilo più basso possibile, cercò riparo uscendo dal sentiero che stava seguendo, gettandosi nella fitta boscaglia.

Capitan America si accucciò, per evitare un’eventuale contromossa come una lingua di fiamma o una sfera di fuoco. Attese quattro secondi, il tempo necessario per capire che non si trattava di una finta. Thomas era stanco. Lui non lo sapeva ma alla base, i ricercatori, avevano teorizzato che i suoi poteri stessero scemando a causa dell’età. I test avevano notato una lieve diminuzione della resistenza e un aumento di ansia e nervosismo. Lo sforzo di usare prolungatamente le proprie facoltà pesava sempre più sul mutante. Annusò l’aria captando un lieve odore. Lo riconosceva: era l’odore di un uomo in preda alla febbre. Cominciò ad avanzare cautamente verso la preda, deciso a porre termine a quel gioco.

 

Tom, accucciato in terra, si appiattì più che poté contro la roccia che sperava gli avrebbe offerto riparo. Doveva essere molto più grande di quanto appariva, il resto della sua massa sepolto contro uno strato di mota e radici accumulatosi con il lento passare degli anni. L’odore di umido gli riempiva le nari e pareva volesse spingersi fino al cervello, confondendo la sua già troppo provata mente. Non ce la faceva più. Ormai era arrivato al limite. Il battito cardiaco si era fatto irregolare e le pupille erano spaventosamente dilatate. Forse poteva apparire giovane ma ormai sapeva che non era più come una volta. L’utilizzo continuo dei suoi poteri l’aveva provato oltre ogni limite e dentro il suo corpo stava accadendo qualcosa. Era come se rigettasse tutti gli organi che lo aiutavano a produrre calore e fiamme. Quasi il suo sistema immunitario avesse perso il senno e stesse attaccando ciò che da una vita aveva sempre riconosciuto come parte dello stesso organismo che doveva difendere. Il problema era persino più grave di come avrebbe potuto credere. L’atp alla base delle reazioni metaboliche contenuto nelle cellule di quegli organi stava mutando, divenendo incapace di assolvere al suo compito. I tessuti stavano morendo, lentamente, andando in necrosi. Era una morte lenta, che un giorno dopo l’altro gli toglieva sempre più le forze.

“Ciao Tom.”

Alzò lo sguardo, togliendosi dalla fronte il sudore che stava sgocciolandogli negli occhi e sorrise con l’aria strafottente. Non voleva mostrare la sua paura. Aveva visto in faccia gli orrori dei campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale e non sarebbe stato quel mostro psicopatico a terrorizzarlo. Questo pensava sprezzante dentro di sé.

“Stai invecchiando, o cosa? Avresti dovuto ammazzarmi subito, ed invece hai commesso l’imprudenza di richiamare la mia attenzione.”

“Mi sembrava giusto così. Rispose lui con indifferente calma Sei stato un buon soldato, anche se alla fine hai tradito il tuo paese. Un tempo eri considerato un eroe di guerra, e ucciderti come un qualsiasi bersaglio non mi sembrava corretto. Anche se ho rinunciato all’effetto sorpresa non fa più alcuna differenza. Non sei nelle condizioni di reagire. Ti ucciderò, senza farti soffrire. Questo te lo posso garantire.”

“Come posso contraccambiare tanta graziosa generosità? fece ironico Ero un eroe, è vero. Prima che i nostri capi decidessero che ero un mutante e di un mutante non ci si può mai fidare, nevvero? Per gli Stati Uniti non era salutare che un gene x fosse considerato un modello da imitare dalla popolazione normale. Entro gli anni 2000 la popolazione mutante sarà dieci volte più numerosa di adesso e non vogliono che l’uomo della strada abbia dubbi quando sarà il momento di combatterli.”

“Mi dispiace davvero per tutto questo ma sai bene che si tratta di un passaggio obbligato. Non sono uno scienziato ma conosco il processo di selezione naturale e lo conosci anche tu. I mutanti non potranno mai vivere al fianco della comune umanità ma tenterà in tutti i modi di sostituirla.” Non c’era risentimento, né odio nelle sue parole. C’era una sorta di composta e amara rassegnazione.

“È per questo che stanno producendo mostri come te, eh? Stanno tentando di dare capacità extra agli umani sprovvisti del gene x, vogliono i loro super soldati pronti a tenere in riga la popolazione mutante in aumento e magari, se ci riusciranno, anche sterminarli nel frattempo.”

Capitan America lo sovrastava dalla sommità della roccia dalla quale lo scrutava con gelidi occhi da predatore e l’espressione della condiscendenza che si riserva ad un bimbo in preda alla febbre. Dondolò per un istante il capo, e quel movimento ricordò a Tom un gufo prossimo a lanciarsi sulla preda. Si tirò a sedere a fatica, poggiando la schiena contro la fredda ed umida pietra.

“Faremo ciò che va fatto. Nulla di più, nulla di meno.”

“Lo farete con efficienza e zelo. Strapperete dal petto della vostra amata nazione quel po’ di umanità che ancora vi alberga.”

“Se questo ci chiedono, questo faremo.”

“E dopo?”

“Dopo cosa?”

“Dopo aver terminato il vostro lavoro, credi veramente che vi lasceranno vivere? Cosa farete quando vi chiederanno di andare in pensione?”

“Faremo quello che ci chiedono.” Insistente stolido Capitan America.

 

Nei pressi di Duang – Ore 2.45 (mentre avviene al confronto tra Capitan America e Tom)

 

Bestemmiò rabbioso mentre scivolava lungo il pendio erboso e rotolava nel fango. Si rialzò quasi di scatto e agitò il pugno verso il cielo, lasciando che l’ira si librasse invisibile verso l’alto. Si trasse fuori dall’acquitrino in cui era precipitato, massaggiandosi la spalla che aveva battuto e tentando di ritrovare il senso dell’orientamento. Non credeva a quello che gli era successo: aveva perso la via; questo non aveva senso, lui era addestrato per sopravvivere in condizioni estreme. Come poteva accadergli questo? C’era qualcosa che non andava. Barcollava e quasi non riusciva a mettere correttamente un passo dopo l’altro. Si sentiva come se, a tratti, non riuscisse nemmeno a mantenere l’equilibrio, come se il sopra e il sotto fossero una vaga ed indistinta nozione.

“Bastardo!” Imprecò improvvisamente. Ora tutto diveniva più chiaro. Alcuni membri dello staff della base avevano, in un paio di occasioni, accusato gli stessi sintomi dopo alcuni test condotti con Gremlin. Il mutante poteva bruciare i circuiti agendo mediante degli impulsi e.m. ma non era inverosimile pensare che in qualche modo potesse, magari involontariamente, colpire anche il sistema nervoso umano. Del resto anche lì passava corrente elettrica. Riuscì ad avanzare, ghignando soddisfatto per la sua brillante deduzione e per quella piccola vittoria ma durò poco.

Le urla del Camaleonte risuonarono nella boscaglia, spegnendosi nella notte il cui orizzonte era arrossato dalle luci della battaglia che di lontano si consumava.

 

 

Fine episodio.

 

 

 

 

 

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Grazie con tutto il cuore e l’affetto di cui sono capace a chi rende possibile il realizzarsi di questo mio antico sogno: scrivere le avventure dei supereroi.

Grazie alla mia Bella Stellina, che mi fa sentire un novello Conway.

Grazie ai miei amici che mi sostengono e mi incoraggiano.

Grazie a Carlo, che infaticabile corregge le mie corbellerie e mi da sempre spunti interessanti.

Grazie a Valerio Diggi, un buon amico scoperto relativamente da poco e che sa sempre far sentirsi vicino.

Grazie al Fagiano, un grande artista, una grande fonte di ispirazione ed un grande amico.

Grazie a tutti voi, che leggete i miei racconti dandomi grande soddisfazione e voglia di continuare!